'Mondo cane' di Daniele Turconi
Più che un monologo un non dialogo con la madre e con la ex fidanzata, dove il protagonista, usando come arma la menzogna, intraprende una lotta passiva contro gli altri e ciò che lo circonda, lasciandosi scorrere addosso una vita imprendibile, indomabile e a volte crudele.
Il protagonista ha appena finito il suo esame di maturità ed è deciso a fare l'avvocato, figura lavorativa in cui vede una possibilità di cambiamento e riscatto. Quelli con madre, ragazza e pubblico sono dei non dialoghi perché, invece che cercare una comunicazione, il protagonista usa le parole per costruirsi dei muri che lo separano dalla realtà. Egli costruisce mattone dopo mattone un instabile castello fatto di piccole bugie, che alla fine gli crollerà addosso inesorabilmente.
Tagli temporali netti lo fanno scorrere di colpo avanti di mesi e a volte anni evidenziando in modo grave la sua progressiva sconfitta, prima come studente, poi come lavoratore e infine in quanto uomo. Così tira avanti, tra una bugia e l'altra, tra uno stage e l'altro, apparentemente in movimento, ma in realtà fermo ad aspettare la disfatta.
Solo il ritorno improvviso della sua ex fidanzata sembra smuoverlo definitivamente da questa passività a cui si è autocondannato. Peccato che la ragazza in questione lo stia cercando nella città sbagliata.
"La menzogna, appunto, e il mio rapporto con essa" racconta Turconi, "sono il tema centrale del lavoro. L'urgenza che mi ha portato a cominciare questo progetto è la mia condizione di venticinquenne condannato a morte ogni giorno dai telegiornali, con i sondaggi sull'andamento del paese, sulla pensione che non vedrò mai, sul lavoro che non avrò mai, sulla vita che non avrò mai. Bombardato ogni giorno dalle previsioni di un futuro infernale, ho voluto lavorare sull'unica cosa che ci può salvare quando stiamo precipitando a caduta libera in un mare di problemi non nostri: la speranza di una seconda possibilità. La mia condizione personale, continua l'attore-autore, "influisce in maniera tremenda sul mio lavoro. Io, come il mio protagonista, sono bloccato, inerme, mi faccio schiacciare da tutto per poi esplodere nel momento meno opportuno. Mi attacco a un filo del telefono, metafora di rapporti gelidi, disumani, telematici, distanti. Mi lascio strozzare dalla comunicazione fredda che non comunica nulla e faccio finta che tutto vada bene, che non sia tutta colpa mia, mi diverto e mi crogiolo nella mia condizione di condannato non facendo mai veramente quello che serve per scrollarmi di dosso tutto il fango che ogni giorno, la politica, la famiglia, i mass media, il vicino di casa e il datore di lavoro mi buttano addosso per farmi stare a posto: cioè governabile, rabbioso e mansueto nello stesso tempo. Come un cane. Fondamentalmente perché, forse, trovo conforto nel soffrire".